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“Il coronavirus non ci tocca”, tre mesi dopo

Qualche pensiero sul coronavirus di un medico, a tre mesi da quando sembrava un problema che mai avrebbe interessato il mondo occidentale.

In questi giorni spesso vediamo immagini di medici e infermieri e personale sanitario impegnati nel contrasto alla pandemia Covid 19 e siamo loro grati per il grande spirito di sacrificio e l’abnegazione con cui affrontano questa grande emergenza. Oggi abbiamo il piacere di pubblicare in tal senso il pensiero del nostro amico dottor Francesco Sessa, già primario del centro trasfusionale dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia e oggi impegnato a sostenere le attività dei gruppi di donatori di sangue e in tante altre attività di volontariato. Lo ringraziamo per la disponibilità.

 

“IL CORONAVIRUS NON CI TOCCA”

“Il coronavirus non ci tocca”: questo il nostro pensiero quando, a fine Gennaio, sono giunte a noi le prime notizie sul focolaio epidemico in Cina; abbiamo pensato a qualcosa che difficilmente avrebbe potuto coinvolgere così tanto anche il nostro “pulito” mondo occidentale. Eppure, nel giro di poche settimane, ci siamo dovuti ricredere. L’Italia, prima fra le nazioni europee, ha dovuto iniziare la sua “terza guerra mondiale” contro un nemico invisibile, potente all’inverosimile. Mentre scrivo, il numero dei contagiati nel mondo è arrivato a circa 2.000.000, i decessi a oltre 100.000. In Italia, i casi positivi son diventati circa 150.000, i decessi circa 20.000. Questi i numeri a noi conosciuti, ma ci saranno centinaia di vittime di questa pandemia che non hanno avuto neanche il tempo di essere visitate da un medico.
Durante le storiche guerre, operatori sanitari, medici e infermieri che andavano in trincea a salvare vite umane, a nome e per conto della salvaguardia della vita, venivano, in genere, “risparmiati” dal fuoco nemico.In questa guerra no. Non è così. Non solo medici, ma anche infermieri e operatori sanitari hanno perso la vita su questo immane campo di battaglia: oltre 100 medici e decine di infermieri sono rimasti uccisi nel compimento del loro dovere. Da più di un mese, combattono anche loro contro il virus. Molti sono giovani medici e infermieri assunti con contratti a termine: poche migliaia di euro al mese e un futuro professionale incerto.
Eppure è anche grazie al loro contributo che molti ospedali stanno ottenendo risultati eccellenti.

Diverse migliaia si sono contagiati. Ognuno di loro dà tutto se stesso per svolgere il proprio compito, permettetemi, la propria missione nel modo più professionale e dignitoso possibile, senza trascurare l’indispensabile e terapeutico aspetto del contatto umano. La maggioranza di loro ha dovuto lavorare, in modo particolare nel primo periodo, in condizioni di estrema precarietà: presidi di protezione individuale pari a zero, mascherine non idonee e riciclate il più possibile, turni lunghissimi, anche di 12 ore o 18, tutto questo senza un minuto di sosta. E…mediamente ogni giorno circa 300 di questi si ammalano nel curare gli altri.A distanza di oltre un mese dall’inizio di questa tragedia, sono riusciti ad ottenere un minimo di protezione, ma sono aumentati, in ciascuno di loro, sconforto, stanchezza, a volte inadeguatezza, ma soprattutto rabbia, rabbia nel vedere tante vittime lasciare i reparti.
Qualcuno li ha definiti eroi. Lo sono a tutti gli effetti. Quanti di loro hanno scelto, anche per paura di essere “untori” , di mettere da parte gli affetti familiari, gli interessi personali, tutto, pur di stare in prima linea con guanti e mascherine, pur di essere lì a combattere con gli altri e per gli altri, con il timore di rimetterci la pelle. Molti li hanno definiti eroi, come ho detto prima, io li definirei anche “martiri” del terzo millennio: sono davvero pronti a “versare il sangue” pur di non darla vinta a questo inclemente virus. Sono tutti lì, pronti a trasmettere serenità, quando loro stessi non ne hanno; pronti a trasmettere un sorriso quando loro stessi piangono dietro una mascherina; pronti a trasmettere una carezza quando, forse, ne avrebbero bisogno prima loro.
Tutti i pazienti che sono deceduti, e che continuano a morire in questo periodo per il coronavirus, hanno potuto ricevere, fino all’ultimo respiro, il conforto di un medico, di un infermiere o di un operatore sanitario (il più delle volte di sesso femminile). Quanti, infatti, hanno l’arduo compito di essere ponte tra i pazienti e i familiari…; quanti sono stati voce di questi familiari costretti al distacco, quanti sono stati e sono gli unici a permettere, ad un paziente in fin di vita, di salutare per l’ultima volta i propri cari, anche se attraverso uno sterile schermo di un telefonino.
Questi eroi, ma più che altro, questi angeli sono grandi professionisti, consapevoli di poter e dover dare il proprio contributo, anche a costo della vita, nelle situazioni più critiche.
Probabilmente, quando tutto questo finirà ogni medico, ogni infermiere che ha superato questa battaglia potrà scrivere e raccontare tantissimi episodi vissuti. Quello che, però, non scorderanno mai è l’orgoglio con cui hanno svolto il proprio dovere, la loro missione. Tutto questo non deve, però, finire nello sgabuzzino dei ricordi. No. Per nessuno.
Ancor di più, il loro esempio deve essere per noi medici, e per tutti coloro che vivono negli ospedali a contatto con i malati, uno sprone a non dimenticarci mai che siamo chiamati a rinnovare quotidianamente le promesse fatte nel momento in cui abbiamo messo, per la prima volta, “piede” in ospedale. Siamo uomini chiamati a servire e, come pochi giorni fa ha ribadito Papa Francesco durante un’omelia, “la vita non serve se non si serve”.

 

DOTTOR FRANCESCO SESSA

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